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Cinematografo

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Con la parola ‘Cinematografo’ continua il nostro viaggio nelle origini della settima arte attraverso la categoria: il Linguaggio del Cinema. La scorsa settimana ci eravamo fermati sia all’etimologia e sia alla traduzione della parola cinema, sfiorando solamente il termine oggetto dell’articolo. Più avanti, nei prossimi appuntamenti, si inizierà, con vari aneddoti storici ha raccontare di come tutto sia veramente iniziato. Dai primi tentativi fino ad arrivare a quello che oggi è diventato il cinema: una vera e propria industria dei sogni.

IL CONCETTO

Un’industria dei sogni che promana da un concetto molto semplice. Un concetto, che riportato in qualsiasi rigo di quaderno o espresso a voce, non riesce ad ottenere lo stesso effetto. L’espressione è: descrizione in movimento. Con l’ultima parola ci si riferisce, in greco, al vocabolo Kinema, come è stato riportato la settimana scorsa. Anche in cinematografo il movimento è rilevante. E lo è ancor di più con la parola ‘descrizione’. Difatti, ‘Cinematografo’, significa proprio: descrizione del movimento. La lingua greca e quella francese sono considerati, in questo nostro viaggio nel tempo, come meri punti di riferimento. Ma soprattutto il francese è da tener ben presente per una data in particolare. Scopriamola.

ETIMOLOGIA

La parola cinematografo non indica solo un termine che nella lingua greca è dettata dall’unione di due vocaboli ‘kinema’, appunto, e graphos, letteralmente ‘scrivere’. Nella traduzione in francese, invece, il termine è conosciuto come Cinematographe. Questo termine venne usato per la prima volta, da due fratelli francesi, per identificare una loro invenzione, un oggetto in particolare che serviva, per la prima volta, a catturare delle immagini in movimento. Quell’oggetto oggi è entrato nel linguaggio comune, di tutti i giorni. Infatti Cinematografo era il nome della prima cinepresa realizzata. E’ il primo tentativo di registrazione, per brevettarlo, avvenne, esattamente, il 13 Febbraio del 1895. Ma di questa storia se ne parlerà, direttamente, il 27 agosto 2018.

 

 

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Il Linguaggio del Cinema

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Il linguaggio del cinema non è a se stante, non deve essere considerato come un unicum separato dalle altre tipologie di arti, nonostante il cinema medesimo è riconosciuto come la settima arte tra le nove esistenti. Il linguaggio del cinema è composto da diversi idiomi. Cosa sarebbe, in fondo, il cinema stesso senza una sceneggiatura? Una scenografia? Una colonna sonora? E’ pur vero che sono stati menzionati solo alcuni elementi fondamentali, essenziali per l’esistenza medesima di questo ‘pianeta cinematografico’, ma è anche vero che i vari singoli punti che verranno analizzati non saranno esenti, come logico che sia, attraverso un percorso storico.

PERCHE’ IL PERCORSO STORICO?

Che sia chiaro: in questo piccolo spazio interamente dedicato al linguaggio del cinema la storia in se non deve essere posta come una classica materia che si studia nei vari corsi universitari, interamente dedicati ai prodromi della settima arte; bensì come una serie di articoli volti, si spera, ad attirar di più la curiosità di voi che state leggendo su fatti tipicamente tecnici miscelati all’origine del cinema medesimo. E’ pur naturale, di conseguenza, sottolineare che, tra i tanti fatti storici del cinema, non verranno analizzati proprio tutti ma solamente quelli più rilevanti, quelli più appetibili. Inoltre questo tipo di operazione verrà svolta, in primis, stand-alone e solo qualche volta, quando ci sono i presupposti per analizzare alcune tecniche cinematografiche con l’ausilio di pellicole storiche.

CINEMA: ETIMOLOGIA DELLA PAROLA

Per risalire all’origine di questa lemma è necessario, addirittura, scomodare non un lingua ma bensì due: il greco ed il francese. Partendo, però, dal secondo idioma indicato si scopre che la parola che usiamo per indicare la settima arte è, senza troppi giri di parole, un’abbreviazione di ‘Cinematographe’, ossia cinematografo. Attraverso la lingua greca, invece, il vocabolo da analizzare è: Kinema. La traduzione, a sua volta, è semplice: movimento.

La settimana prossima, lunedì, ci soffermeremo sulla parola ‘Cinematografo’.

 

 

Recensioni

Un mercoledì da leoni

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Ci sono film che posseggono la natura di romanzi visivi, in cui la fonte d’ispirazione per l’incipit sembra essere uno dei racconti di Ernest Hemingway. Storie semplici, delicate, epiche e che, durante la visione, diventano un’unica onda emotiva che travolge lo spettatore. E questa onda emotiva è confermata ogni volta che c’è una visione di queste pellicole particolari.

In questa schiera di film, classificabili ad un genere a parte, rientra di diritto ‘Un Mercoledì da Leoni’. Realizzato quarant’anni fa e uscito, in Italia, solamente cinque anni più tardi, il 5 luglio del 1983. Diretto da John Milius, la pellicola è incentrata sul mondo del surf. Sia il soggetto che la sceneggiatura sono stati realizzati dallo stesso regista.

La storia è interamente ambientata nel mondo dei surfisti ed è, per dirla ai giorni nostri, antologica. Parte dal 1962 fino ad arrivare nel 1974. In questo lasso di tempo vengono narrate le storie personali e non di tre amici, tutti surfisti, che vivono arrangiandosi e che, nel contempo, attendono il momento propizio di affrontare l’arrivo delle onde giuste.

All’inizio della pellicola la voce narrante fa riferimento ad una mareggiata avvenuta nel 1958. I tre personaggi, oramai esperti e un pò datati per il mondo delle tavole da surf, affronteranno la mareggiata del 1974; attraverso un iconico ed irripetibile finale che ha permesso la pellicola di essere indicata come cult dagli appassionati e non solo.

Nel cast figurano attori diventati, con il tempo, volti noti. Primo fra tutti, anche se aveva una piccolissima particina ma fungeva da voce narrante, Robert Englund, il Freddie Kruger della serie di film Horror: Nightmare. Altro pezzo pregiato era rappresentato dall’attrice Barbara Hale, la quale era diventava famosa, anni addietro, per il ruolo di segretaria di Perry Mason.

I tre protagonisti, invece, sono stati interpretati da Gary Busey, il quale anni più tardi recitò in un altro film cult: Point Break; Jan Vincent Michel e William Katt. Cosa vi dice quest’ultimo nome? Molto probabilmente alle nuove generazione nulla. Ma coloro che sono nati negli anni ’80 e anche un pò prima se lo ricorderanno nel telefilm: Ralphsupermaxieroe.

Come già precisato in precedenza la storia si sviluppa in lasso di tempo di dodici anni, periodo in cui viene sottolineata la spensieratezza di quell’epoca. I momenti edulcorati vengono minati dall’aggravarsi del conflitto in Viet-Nam. La perdita dell’innocenza e delle speranze cozzano con la nuda realtà, ma non l’amicizia tra i tre protagonisti e la voglia di affrontare le onde.

Il duello finale con la natura, con le enormi onde che si innalzano come muri da affrontare e non scansare, rappresenta la morale ed il messaggio più semplice di come la vita possa essere: cavalcare l’onda nonostante sai che potrebbe travolgerti. La metafora è perfetta, come anche il dialogo finale tra i protagonisti dopo la sfida.

“Quel Gerry Lopez è veramente il fenomeno che dicono”. “Si, proprio così. Noi, comunque, abbiamo fatto epoca”. Dialogo che sottintende il trascorrere del tempo e che, senza appello, obbliga ad incominciare a fare solo bilanci. D’altronde un’epoca si è conclusa in maniera epica. In queste battute riportate si fa riferimento ad un personaggio.

Gerry Lopez era veramente un surfista, un fuoriclasse di quei tempi. Tra gli attori protagonisti solo Gary Busey dovette imparare ad affrontare le onde qualche settimana prima dell’inizio della lavorazione della pellicola. ‘Un mercoledì da leoni’ è uno di quei pochi film che sono difficili da ripetere. E’ un evergreen e ringiovanirlo con qualche remake sarebbe davvero un’assurdità.

 

Recensioni

Borg vs McEnroe

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Ogni sfida superata, per acquisire valore a distanza di anni, deve oltrepassare ogni barriera che il tempo pone come ostacolo. Se ciò accade il termine esatto per descrivere l’impresa è: leggendario. E’ questo il vero senso di “Borg vs Mcenroe”. Un significato raccontato, sviluppato con estrema umiltà ed un tocco di drammaticità interiore relativo ai due protagonisti storici del tennis.

Le due storie fungono da traino per tutta la pellicola, fino a incontrarsi o per meglio dire scontrarsi in quella che è la finale delle finali di Wimbledon. Il loro percorso narrato, a metà strada tra il genere biografico e il genere documentario, pone in risalto non solo le difficoltà che Borg e Mcenroe incontrarono e che affrontarono nella loro vita, ma anche di controllare la paura di non farcela, di non raggiungere il risultato sperato.

Bijon Borg, ribelle da adolescente, impara dal suo coach a chiudersi in se stesso, metabolizzando ogni tipo di attacco esterno, per esprimere poi tutta la disapprovazione, la sua rabbia, le sue angosce in ogni colpo di racchetta, conquistando la gara punto dopo punto; John Mcenroe, invece, è l’irascibilità fatta a persona. Un’irascibilità naturale che, nel momento topico, viene trattenuta fino all’ultimo match – point di un’epica finale.

La loro introspezione è una continua partita di tennis, in cui l’attenzione dello spettatore viene fatta rimbalzare fra l’uno e l’altro protagonista, senza mai e poi mai stancare e che, allo stesso tempo, accompagna fino all’epilogo paragonabile ad un vero e proprio tiebreak.

Se nella realtà lo storico match venne conquistato da Borg, entrando così di diritto nella leggenda, perché cinque titoli di fila a Wimbledon nessuno li aveva mai conquistati, le ultime scene della pellicola pongono a sottolineare, in un punta di piedi, la vittoria di entrambi.

In quella sfida hanno battuto i loro demoni e il reciproco rispetto, che prima era solo tra avversari, si tramuta in una splendida amicizia che dura ancora oggi nel tempo. Anche se nello sport viene sempre decretato, alla fine di ogni gara, un solo vincitore in quella partita, in quel 5 luglio 1980, di vincitori ne furono decretati due.

Due leggende che mutarono le regole delle varie rivalità nel tennis. Due uomini impeccabilmente riportati sullo schermo dai due attori: Shia Labouef, Mcenroe, e Sverrir Gudnason, Borg. Con una prestazione quasi da oscar. Peccato solamente che la pellicola non è stata nominata per la statuetta come miglior film straniero. Di sicuro non sarebbe stata immeritata la nomination.

 

News

Steven Spielberg al David di Donatello

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Una vita al servizio del cinema. Settantun’anni e non sentirli e, sicuramente, spesi bene. Solo questo si può di dire del mito, della leggenda americana che questa sera sbarcherà alla novantesima edizione dei ‘David Di Donatello’. Il nostro premio del cinema. Non è una presenza tanto ‘per’ come si dice nel linguaggio di tutti i giorni.

Perché alcune volte basta solamente presenziare a certi eventi. Altre volte, invece, in cui gli sforzi di una vita, che hanno contraddistinto una carriera intera, vengono premiati con un gesto. Con un atto solenne a manifestare il tributo a colui che, negli ultimi quarant’anni, è riuscito a regalare a noi tutti pietre miliari della storia del cinema.

I lungometraggi che ha realizzato sono molti, forse troppi da ricordare tutti in un unico articolo. ‘Duel’, ‘ Lo squalo’, ‘Incontri Ravvicinati del terzo tipo’, ‘Indiana Jones’, ‘E.T. – l’Extraterrestre’, ‘Schindler’s list’, ‘Minority Report’, ‘The Post’ e tanti altri ancora. Come specificato si potrebbe continuare all’infinito.

C’è di più: sempre in precedenza ho definito la sua carriera quarantennale ma, signori e signore, Steven Spielberg realizzò il suo primo cortometraggio nel lontano 1957. Quindi non ufficialmente la sua carriera è di oltre 60 anni. Lui, classe 1946, questa sera alla novantesima edizione riceverà il David di Donatello alla carriera.

Inoltre la sua visita ha un duplice motivo e non si sa se quella del David è effettivamente la più rilevante. Difatti, il regista di Cincinnati, è anche e sopratutto impegnato nella sponsorizzazione della sua ultima fatica cinematografica che nei prossimi giorni, esattamente il 28 marzo in Italia e il 30 marzo negli Stati Uniti, uscirà nella sale cinematografiche.

Il titolo è ‘Ready Player One’. Il film è ispirato dal romanzo omonimo del 2010, scritto da Ernest Cline. Un libro di genere fantascienza la cui trasposizione sul grande schermo, a quanto sembra, richiama in maniera non molto indiretta gli indimenticabili anni ’80.

Qui sotto il trailer:

 

 

NewsSerie Tv

The walking Dead 8: Riflessione

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Il ritorno di ‘The Walking Dead’ è stato più straziante che mai. Certo, oramai si era a conoscenza che uno dei personaggi più rappresentativi del serial tv non avrebbe superato questa ottava stagione. Lo avevamo capito tutti alla fine dell’episodio di metà stagione.

Dopo quei titoli di coda i fans più accaniti si sono scagliati contro gli showrunners, con polemiche feroci polemiche. In fondo ce lo aspettavamo tutti e tutti non l’accetteremo mai. Nella vita reale è innaturale che un figlio non sopravviva al proprio genitore.

Secondo la logica, nonostante la trama reggesse tutto su Rick, era proprio lui a dover morire semmai nella maniera più eroica possibile. Invece il destino si è abbattuto su Carl. La sua morte ha svelato il mistero dello strano sogno fatto dall’ex-sceriffo.

Il sogno, la visione con la quale si era aperta questa nuova stagione, non era di Rick Grimes; ma di suo figlio. Una speranza tramandata nel modo innaturale in punto di morte. Una speranza nella quale i due schieramenti dovrebbe vivere in pace.

S, proprio così. Tutti in quanti in pace e prosperità. Compreso Negan. Chiaramente se così dovesse finire credo che la serie verrebbe cancellata per crollo degli ascolti, nonostante ci sia già una nona stagione in cantiere.

Personalmente non apprezzo la scelta di far morire Carl, anche se la sua scomparsa è un colpo di scena degno delle migliori edizioni. Un colpo di scena creato ad arte per attirare ancor più l’attenzione verso questo show televisivo.

E di una cosa sono sicuro: ‘The Walking Dead’ verrà continuamente criticato, stroncato e forse anche odiato per alcune scelte dei produttori, ma sarà sempre seguito. Lo sarà fino all’ultimo secondo dell’ultimo episodio. Possa essere anche la ventesima stagione.

E importerà fino ad un certo punto se la serie tv si trascinerà avanti come un ‘walkers’. In fondo questa è la terza stagione di seguito che lo show si sta trascinando come uno zombie. Ma la mia, fra le tante che ho avuto, è solo un’impressione.

 

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